“L’unità di misura del dolore degli esseri umani è il litro, e lui era arrivato a due al giorno. Aveva iniziato un po’ alla volta, con l’amaro dopo cena. Poi la sambuca nel caffè. Quindi lo spritz prima di cena, la birra piccola a pranzo, la birra media a pranzo. Il punch al mandarino con la brioche, a colazione. I boeri al rum, il grappino per digerire, il grappino per andare a dormire. Il grappino così, senza nessun motivo particolare. Un ottundimento sistematico, che puntava a diventare perenne. I vecchi amici, che nei dieci anni di fidanzamento aveva visto tre volte, ora si davano il turno per fargli compagnia: li mandava a casa disintegrati. Era questione di allenamento, il dolore. Di costanza, di dedizione e soprattutto di ferocia. Poi, per rincuorarsi, ogni mattina leggeva, nelle pagine interne del giornale locale, lo straziante bollettino degli annunci matrimoniali: donne buone e brave e piene di voglia di vivere cercavano un’anima gemella che le facesse sentire di nuovo felici. Era soddisfatto nel sentire come quel dolore non riuscisse neppure a toccarlo. In poco tempo aveva scoperto che esisteva la felicità, esisteva l’infelicità, e poi esisteva il contrario di entrambe, un limbo limaccioso e lentissimo dove nulla era bello e nulla ti feriva. Ora sapeva che ogni sofferenza aveva un antidoto.”
Estratto dal racconto di Paolo Zardi, L’amore reclinato, da La vita sobria, Neo Edizioni
Foto di Emanuela Ciliento