«“In nome del padre” inaugura il segno della croce. In nome della madre s’inaugura la vita».
La storia di Miriàm/Maria affascina, interroga, stupisce. C’è chi ci crede, chi non ci crede; chi si interroga, chi vive tranquillamente senza conoscerla o volerla sapere. Poi, al di là di chi crede, c’è chi accoglie questa storia come un grande mistero: il mistero di una maternità, ma anche il mistero della maternità più affascinante della Storia. Probabilmente solo uno scrittore come Erri De Luca con In nome della madre, edito da Feltrinelli, poteva scriverne con una capacità di emozionare senza ricorrere ad alcun sensazionalismo. Perché qui il mistero più grande è la maternità stessa, un atto tanto umano, tutto umano, che uguaglia a ogni bambino il dio bambino, che per nove mesi cresce nell’utero materno come ogni altro bambino. Atteso come ogni bambino, amato come ogni bambino. Una “convivenza” forzata tra madre e figlio 24 ore su 24, a tempo determinato, per creare un legame che sin dal suo inizio è proiettato irrimediabilmente verso l’infinito. Così, pur non avendo vissuto la gioia della maternità, la prima volta che ho letto questa storia mi è sembrato di vivere la grande attesa assieme alla giovane Miriàm, sin da quando quell’alito di vita si avvita al suo fianco e la riempie di parole di vita.

«In corpo, nel mio grembo si era fatto spazio. Una piccola anfora di argilla ancora fresca si è posata nell’incavo del ventre».
Il suo racconto è commovente: commuove per la semplicità con cui scopre la vita attorno a sé e dentro di sé. Commuove per l’amore profondo e la gratitudine con cui parla del suo sposo, Iosef. Commuove per questo spazio nello spazio che si crea dentro la sua stessa vita.
«Sa i miei pensieri. È un maschio e mi rimprovera. Occupa tutto il mio spazio, non solo quello del grembo. Sta nei miei pensieri, nel mio respiro, odora il mondo attraverso il mio naso. Sta in tutte le fibre del mio corpo. Quando uscirà mi svuoterà, mi lascerà vuota come un guscio di noce. Vorrei che non nascesse mai. Arrivò un altro calcio, però più gentile».
E quando il vaso di argilla si svuota c’è un senso di vertigine: nello spazio di una notte tutto cambia.
La tradizione ebraica raccontata da De Luca vuole che la donna sia sola con il suo bambino, nel momento del parto. E così Miriàm chiude il cerchio così come si è aperto: da sola mette al mondo il suo Ieshu, da sola lo accoglie tra le sue braccia di madre inesperta che impara dal figlio stesso il mestiere di madre. Nelle ore che intercorrono tra la notte e l’alba, il tempo è tutto per loro.
«Fuori c’è il mondo: i padri, le leggi, gli eserciti, i registri in cui iscrivere il tuo nome, la circoncisione che ti darà l’appartenenza a un popolo. Fuori c’è odore di vino. Fuori c’è l’accampamento degli uomini. Qui dentro siamo solo noi, un calore di bestie ci avvolge e noi siamo al riparo dal mondo fino all’alba. Poi entreranno e tu non sarai più mio».