Dieci minuti al giorno per levare le paranoie di torno. Dieci minuti al giorno per decostruire palizzate di certezze andate a male, su cui si inerpica quella muffa che rende tutto molle e destinato a deteriorarsi. Per dieci minuti, di Chiara Gamberale edito da Feltrinelli, è uno dei regali che le attenzioni di qualcuno mi ha consegnato nel tempo: un libro con dedica, meditato, con una sua ragione d’essere nelle intensioni dell’autrice e di chi lo ha scelto per me. Una storia romanzata con un fondo di verità, nato dall’esperienza della Gamberale che, per un mese, ha sperimentato in prima persona l’arte dei “dieci minuti” dedicati ogni giorno a fare qualcosa che non si è mai fatta e che mai si penserebbe di fare. Dieci minuti di lotta per l’indipendenza di quell’io profondo sepolto sotto strati di abitudini e personalità modellata da anni di attività umana e relazioni interpersonali.

Della Gamberale avevo letto un solo libro, La zona cieca (Feltrinelli) – di cui parlo nel nostro podcast qui –, che mi aveva innervosita per tutto il tempo a causa dell’atteggiamento della protagonista – Lidia – e per il senso di fallimento e di bruttezza che possono esserci nelle relazioni sentimentali e nella percezione della propria dignità dinanzi a un amore – quello per Lorenzo – che diventa brutto, brutto davvero. Ho letto con grande curiosità e con un piccolo senso di sfida “Per dieci minuti”, avevo bisogno di far riprendere la me lettrice e di farla riconciliare con la bella scrittura della Gamberale, che costruisce mondi in cui l’identificazione è questione di pochi secondi per quanto tutto appaia vivido.
«Scrivere — ha raccontato l’autrice in un’intervista al Corriere — è l’unico rimedio che ho trovato per sopportare l’esistenza. Una vocazione autentica… Da bambina complicata, l’unica forma di appagamento e pace era ascoltare storie. Poi ho imparato a leggere… Scrivere è sempre stato il mio modo di stare al mondo. Di resistere all’esistenza: di capirla».
Nel mentre e dopo aver terminato la lettura, ho cominciato a interrogarmi su questa storia esperienziale, sulle manie, sulle abitudini, su quelle piccole certezze che se da un lato ci aiutano nel caos quotidiano, d’altro canto possono rivelarsi delle gabbie dorate in cui ci confortiamo, senza andare al di là, senza scrutare oltre il limite che ci siamo precostituiti, con molteplici “senza” e nessun “con”.
I miei primi “dieci minuti” sono iniziati un sabato sera di metà gennaio in un locale di Strasburgo, a tarda serata, con una venezuelana e una spagnola come elementi di disturbo della mia normalità che, con estrema semplicità, hanno alzato il mio sguardo oltre un orizzonte certo. Un esercizio di piccoli passi messi uno dopo l’altro per modificare l’andatura e, se dovesse andare bene, la direzione. Una nuova chiacchierata, uscire prima da lavoro e pranzare fuori con una collega, mangiare libanese (e scoprire di amarlo profondamente), andare al cinema e vedere per la prima volta un film in lingua originale con sottotitoli in una lingua che non è la tua…
Il percorso di Chiara, la protagonista del libro, non è per nulla semplice e porta al cambiamento, a quelle conseguenze da cui non è possibile tornare indietro. Come la sforbiciata dei ricci capelli di Ato, la decisione di adottare, la scelta di cambiare casa. Una complessità che diventa tale nelle sue propaggini e che, invece, nasce da una cosa semplice, da una proposta:
“Le va di fare un gioco? Per un mese, a partire da subito, per dieci minuti al giorno, faccia una cosa che non ha mai fatto”
“E poi? …Alla fine cosa si vince? Riavrò indietro la mia vita?”
“Ne riparliamo fra un mese… Intanto giochi, si impegni e non bari, mi raccomando”
“Non avevo niente da perdere… è diventata la mia occasione per provarci”.